Nel suo capolavoro Le avventure di Pinocchio, Carlo Lorenzini – Collodi per tutti – non ha solo tracciato un romanzo-favola per i bambini, ma ha anche fornito importanti informazioni al grande pubblico degli adulti. In tanti hanno trovato nell’opera messaggi pedagogici e morali per l’educazione dell’infanzia, o più criptiche interpretazioni esoteriche, ma è indubbio che Collodi ha anche illustrato uno spaccato della vita sociale e politica dell’Italia – in particolare della Toscana – di metà Ottocento.
Pinocchio nacque nella Firenze postunitaria, dopo che la città toscana aveva subìto lo smacco della capitale ‘sfumata’ – un grande sogno su cui molti investirono e che svanì in sei anni – e si era ritrovata abbandonata, delusa e piena di debiti. Il libro di Collodi rispecchia quella realtà, di tanti fiorentini impoveriti e tanti altri ancora legati alla vita rurale e contadina.
Qualcuno ha riconosciuto nel libro i luoghi e i personaggi familiari all’autore, che viveva nella Villa Il Bel Riposo a Castello, nella periferia nord-occidentale di Firenze, insieme al fratello Paolo, direttore della fabbrica Ginori di Doccia. Pinocchio fu edito nel 1883, dopo che la prima metà della storia era stata pubblicata a puntate tra il 1881 e il 1882, col titolo La storia di un burattino.
L’uscita del romanzo avvenne durante la gestazione di un’altra grande opera di successo scritta a Firenze, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, editata per la prima volta nel 1891. In questa grande opera, lo scrittore romagnolo raccolse le ricette delle famiglie borghesi, tramandate di generazione in generazione ma fino ad allora mai catalogate – e prima di trascriverle le testò tutte con l’aiuto di due cuochi di sua fiducia, Francesco Ruffilli e Marietta Sabatini.
Si può ipotizzare una contaminatio artusiana nella stesura di Collodi, o viceversa? Ci sono vari passi in cui Pinocchio e altri personaggi mangiano – o fantasticano di mangiare – molti dei cibi che poi ritroviamo descritti nel ricettario dell’Artusi, che però vedrà la luce quasi dieci anni dopo Pinocchio. Sappiamo che la fonte di ispirazione alimentare di Collodi e di Artusi è pressoché la stessa, cioè la tradizionale gastronomia fiorentina, in particolare quella dei nobili e della borghesia, che anche il padre di Carlo frequentava, essendo un cuoco al servizio dei conti Ginori. Lo si deduce dalla naturale competenza con cui Collodi argomenta sia della cucina povera che di quella ricca e opulenta, spaziando tra piatti contadini e cittadini, allargandosi a quelli della costa tirrenica e approdando anche alla gastronomia emiliana e quella lombarda.
Adesso voglio togliermi le vesti di storico-letterato per concentrarmi su Pinocchio come racconto di vita quotidiana attraverso il cibo. Abbiamo detto che Collodi cita piatti popolari e borghesi della cucina toscana e italiana in generale, e qui mi viene spontanea una domanda provocatoria: Pinocchio era vegetariano? Il burattino non mangia mai carne, nemmeno all’Osteria del Gambero Rosso, dove ordina “uno spicchio di noce e un cantuccio di pane” (cap. XIII). In altri passi – a volte per povertà, altre volte per la contingenza dell’episodio – si parla di pietanze semplici, come le tre pere di Geppetto, la classica colazione mattutina della classe contadina (cap. VII), o come le vecce, di solito destinate all’alimentazione animale: “Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le veccie; a sentir lui, gli facevano nausea, gli voltavano lo stomaco; ma quella sera ne mangiò a strippapelle e, quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse: Non avrei mai creduto che le veccie fossero così buone” (cap. XXIII). Anche nel Paese delle Api Industriose la fata, come ricompensa per un servigio ricevuto, gli offre “un bel piatto di cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto” (cap. XXIV).
Il libro ricorda diverse pietanze cardine della dieta salva-fame della povera gente toscana, come la polenta di farina gialla – che richiama il nomignolo del falegname, Polendina, derivato dal giallo della sua parrucca (cap. II) – che immaginiamo di veder bollire nella pentola dipinta sul focolare di Geppetto (cap. III), o come una pentola di fagioli (cap. I). Fagioli che, stando alla conoscenza collodiana, potevano essere quelli di Sorana o i piattellini (coltivati nel Pesciatino, proprio vicino a Collodi) e che, insieme ad altri legumi, erano la ‘carne della povera gente’, le ‘proteine del popolo’. Per sottolineare l’importanza di questo alimento, basterà ricordare il vecchio detto “Fiorentin mangia fagioli, lecca piatti e romaioli e per farla più pulita, poi si lecca anche le dita”.
Un altro baluardo contro la fame era ovviamente l’uovo, nutrimento completo che non poteva essere ignorato da Collodi: “… gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina. Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo davvero” (cap. V). Qui l’autore, attraverso le fantasticherie gastronomiche di Pinocchio, si sbizzarrisce sull’utilizzo culinario dell’uovo: frittata, frittura in padella, cottura “a uso uovo da bere” – una sorta di oeuf à la coque (cotto in poca acqua, col guscio, per due minuti) – e cottura “nel piatto o nel tegamino” a fuoco diretto, in un grasso, a tuorlo intero (all’occhio di bue). Pinocchio, che aveva fretta di mangiarselo, “pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa: messe nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua; e quando l’acqua principiò a fumare, tac!… spezzò il guscio dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo dentro” (cap. V). Poco importa, in questo ambito, se dal guscio rotto uscì un pulcino grato a Pinocchio per averlo aiutato a uscire… Altra citazione di questo importante alimento compare quando il burattino fu inghiottito dal Pesce-cane: “Il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina, e lo inghiottì” (cap. XXXIV).
Fra le pietanze più comuni, l’autore cita anche il più classico spuntino toscano, “un cantuccio di pan fresco e una bella fetta di salame” (cap. XXXIII), e il benefico bicchiere di latte, “che faceva tanto bene alla salute cagionosa del suo babbo” (cap. XXXVI). Nei giorni di magro, dal Mercoledì delle Ceneri fino al Giovedì Santo, si osservava digiuno e astinenza dalla carne. Pesci, ceci, lenticchie e fagioli diventavano pertanto i protagonisti indiscussi dell’alimentazione quaresimale. Collodi, trattando dell’utilizzo della cucina ittica nel periodo prepasquale, scrive che “quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto, che gli pareva d’essere a mezza quaresima” (cap. XXXV).
Collodi aveva già parlato di frittura, come abbiamo visto, e anche il pescatore verde (cap. XXVIII) snocciola un bel repertorio di pesci rimasti nella sua rete, “un brulichio di pesci d’ogni forma e grandezza”, come triglie, naselli, sogliole, ragnotti, acciughe ‘col capo’ e muggini, oltre al ‘pesce-burattino’ Pinocchio, scambiato per un granchio. Il pescatore, dopo averli passati in “un vassoiaccio di legno, pieno di farina”, “li buttava a friggere dentro la padella […] e a ballare nell’olio bollente”. Solo a Pinocchio l’uomo verde chiese, in segno di amicizia e stima, di come voleva essere cucinato, se nel tegame “con la salsa di pomidoro” – cioè alla livornese – o fritto come gli altri pesci.
E veniamo all’Osteria del Gambero Rosso. Secondo Nicola Rilli*, il nome fu ispirato a Lorenzini dall’Osteria Mangia e Bei di Colonnata (Sesto Fiorentino), che all’ingresso teneva due colonne di vasi pieni di gamberi di fiume cotti: da una parte c’erano quelli già sbucciati, per chi voleva mangiarli in un boccone, dall’altra c’erano quelli da sbucciare, per chi preferiva succhiarne la gustosa polpa dall’esoscheletro.
Proprio all’Osteria del Gambero Rosso, attraverso la cena del Gatto e della Volpe, possiamo annotare alcune delle pietanze più elaborate della cucina fiorentina ricca e borghese (cap. XIII). Le preferenze del Gatto vanno alle “trentacinque triglie con salsa di pomodoro” per poi passare a “quattro porzioni di trippa alla parmigiana”, che però non era condita abbastanza, per cui il Gatto “si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio”.
Ma vediamo cosa dice Pellegrino Artusi sul secondo piatto, la trippa col sugo: «La trippa, comunque cucinata e condita, è sempre un piatto ordinario. La giudico poco confacente agli stomachi deboli e delicati, meno forse quella cucinata dai Milanesi, i quali hanno trovato modo di renderla tenera e leggiera, non che quella alla còrsa che vi descriverò più sotto. In alcune città si vende lessata e questo fa comodo; non trovandola tale, lessatela in casa e preferite quella grossa cordonata. Lessata che sia, tagliatela a strisce larghe mezzo dito ed asciugatela fra le pieghe di un canovaccio. Mettetela poi in una casseruola a soffriggere nel burro e, quando lo avrà tirato, aggiungete sugo di carne o, non avendo questo, sugo di pomodoro; conditela con sale e pepe, tiratela a cottura più che potete e quando siete per levarla, gettateci un pizzico di parmigiano».
Le scelte della Volpe sono più sostanziose, a partire dalla lepre in dolce e forte: questo piatto, fra l’altro, compare una seconda volta nella novella (cap. XXII), a testimonianza di una pietanza familiare a Collodi. Insieme alla lepre, la Volpe si fa portare “un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto” per poi proseguire con un “cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi”.
In realtà l’autore fantastica sugli ingredienti del cibreo, un piatto fatto di rigaglie, fegatini e creste di pollo che a Firenze, in quell’epoca, veniva preparato nella botteguccia di Gigi Porco, in via de’ Pucci (presso le Cinque Lampade) e che viene così descritto dall’Artusi: «Il cibreo è un intingolo semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle signore di stomaco svogliato e ai convalescenti. Prendete fegatini, creste e fagiuoli di pollo; le creste spellatele con acqua bollente, tagliatele in due o tre pezzi e i fegatini in due. Mettete al fuoco, con burro in proporzione, prima le creste, poi i fegatini e per ultimo i fagiuoli e condite con sale e pepe, poi brodo se occorre per tirare queste cose a cottura. A tenore della quantità, ponete in un pentolino un rosso o due d’uova con un cucchiaino, o mezzo soltanto, di farina, agro di limone e brodo bollente, frullando onde l’uovo non impazzisca. Versate questa salsa nelle rigaglie quando saranno cotte, fate bollire alquanto ed aggiungete altro brodo, se fa d’uopo, per renderla più sciolta, e servitelo. Per tre o quattro creste, altrettanti fegatini e sei o sette fagiuoli, porzione sufficiente a una sola persona, bastano un rosso d’uovo, mezzo cucchiaino di farina e mezzo limone».
Nello stesso passo (cap. XIII) viene citata anche la paradisa, un’uva bianca da tavola già raffigurata da Bartolomeo Bimbi in una tela sulle uve del Granduca e presente anche nel bolognese, mentre nel cap. XXI Pinocchio cerca invano di rubare due grappoli di moscadella, un’uva dolce utilizzata sia da pasto che per vinificazione.
Tornando ai piatti delle tavole borghesi, Lorenzini cita il piccione arrosto (cap. XIV), i petti di pollo e il cappone in galantina (cap. XXXIII).
Per il cappone ci rifacciamo alla ricetta artusiana: “Vuotato e disossato rimase chilogrammi 0,700 e fu riempito con la quantità di ingredienti che qui appresso vi descrivo: Magro di vitella di latte, grammi 200. Detto di maiale, grammi 200. Mezzo petto di pollastra. Lardone, grammi 100. Lingua salata, grammi 80. Prosciutto grasso e magro, grammi 40. Tartufi neri, grammi 40. Pistacchi, grammi 20. Mancandovi il maiale, può servire il petto di tacchino. I tartufi tagliateli a pezzi grossi come le nocciuole e i pistacchi sbucciateli nell’acqua calda. Tutto il resto tagliatelo a filetti della grossezza di un dito scarso e mettetelo da parte salando le carni. Fate un battuto con altro maiale e con altra vitella di latte, grammi 200 di carne in tutto, pestatelo fine in un mortaio con grammi 60 di midolla di pane bagnata nel brodo; aggiungete un uovo, le bucce dei tartufi, i ritagli della lingua e del prosciutto, conditelo con sale e pepe e, quando ogni cosa è ben pesta, passatelo per istaccio. Ora, allargate il cappone, salatelo alquanto e cominciate a distendervi sopra un poco di battuto e poi un suolo di filetti intercalati nelle diverse qualità, qualche pezzetto di tartufo e qualche pistacchio; e così di seguito un suolo di filetti e una spalmatura di battuto finché avrete roba, avvertendo che i filetti del petto di pollastra è meglio collocarli verso la coda del cappone per non accumulare sul petto di questo la stessa qualità di carne. Ciò eseguito, tirate su i lembi del cappone dalle due parti laterali, non badando se non si uniscono perfettamente, che ciò non importa, e cucitelo. Legatelo per il lungo con uno spago, involtatelo stretto in un pannolino, che avrete prima lavato, onde togliergli l’odore di bucato, legate le due estremità del medesimo e mettetelo a bollire nell’acqua per due ore e mezzo. Dopo scioglietelo, lavate il pannolino, poi di nuovo rinvoltatelo e mettetelo sotto un peso in piano e in modo che il petto del cappone resti al disotto o al disopra e in questa posizione tenetelo per un paio d’ore almeno, onde prenda una forma alquanto schiacciata. L’acqua dove ha bollito il cappone può servire per brodo e anche per la gelatina”.
Nell’episodio di Mangiafuoco, lo spaventoso e severo burattinaio, incontriamo un piatto non della tradizione toscana e forse ritenuto un po’ esotico anche da Collodi, cioè il montone allo spiedo (cap. X). L’intrusione di questo arrosto vuole fare riferimento alla dieta dei girovaghi e dei teatranti – qual era forse lo stesso Mangiafuoco – provenienti anche da terre lontane come l’Europa Orientale, dove era in uso la carne di montone a cottura diretta col fuoco.
Quanto ai primi piatti dei benestanti, Collodi cita diverse preparazioni gastronomiche extraregionali, come il risotto alla milanese, i maccheroni alla napoletana (cap. XXXIII) e addirittura il tortellino di Bologna (cap. XXXV), tutti e tre contemplati nel ricettario artusiano. Non mancano riferimenti golosi ai dessert, con Pinocchio che fantastica di “una libreria piena di canditi, di torte, di panattoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna” e di “una cantina piena di rosoli e alchermes” (cap. XIX).
Il nome rosolio deriva dal latino ros solis – cioè rugiada di sole – e Artusi ne elenca diversi tipi, come quello “di Portogallo” (a base di arance), quello di cedro, quello a base di “anaci” di Romagna e quello tedesco, con latte e limone, anche se la versione più popolare è sempre stata quella a base di petali di rosa. Il successo del rosolio fece seguito all’ampia diffusione dello zucchero raffinato e dell’alcol nell’Europa del Settecento. Delicato al gusto e poco alcolico (25-35%), si dice che venisse largamente prodotto anche nei conventi femminili, specialmente nel sud Italia, dove aveva fama di ‘ammazzacaffè’ e liquore di buon augurio da offrire agli ospiti a fine pasto.
La prima ricetta in cui si ha documentazione del ‘rosolio di Torino’ risale al 1715, quando fu aggiunta all’opera gastronomica Nouvelle instruction pour les confitures, les liqueurs, et les fruits di François Massialot, in cui viene così descritta: “Si ottiene con la distillazione. Riempite la metà di un grande alambicco di rame con vino pastoso e delicato. Aggiungeteci cannella, macis, chiodi di garofano, con dello zucchero sciolto in qualche acqua profumata, a seconda del profumo che intendete dare al vostro Rosolio, sia acqua di fior d’arancio, gelsomino, tuberosa, o altro. Coprite il vostro alambicco col suo capitello o refrigerante, spalmate ben bene le giunture con del budello bagnato, o con carta ruvida imbevuta di colla, e distillate a fuoco basso”. Nel 1725, il barone Karl Ludwig von Pöllnitz – il militare tedesco che dedicò la vita a viaggiare in tutta Europa e a scrivere su usi e costumi dei vari luoghi – scriveva di Torino che erano famosi “il suo rosolio ed i suoi liquori”.
Nonostante molte rivendicazioni, la paternità del rosolio è probabilmente proprio piemontese, soprattutto per volere e merito di Vittorio Amedeo III di Savoia, vero appassionato della variante regionale, preparata con camomilla, genziana, rose gialle, melissa e lavanda.
L’alchermes, invece, era molto familiare a Firenze: prodotto già dal XV secolo, era assai amato dai Medici, tanto che in Francia era chiamato proprio ‘liquore dei Medici’. Viene tuttora preparato nell’Officina Profumo-Farmaceutica di Santa Maria Novella Firenze 1612 secondo la ricetta del 1743 di Fra’ Cosimo Bucelli, che all’epoca ne era il direttore. Il suo nome deriva dall’arabo al-qirmiz, che significa cocciniglia, per il color cremisi che lo caratterizza.
Veniva utilizzato soprattutto nella preparazione della zuppa inglese, come indicato nella ricetta di Artusi: “In Toscana – ove, per ragione del clima ed anche perché colà hanno avvezzato così lo stomaco, a tutte le vivande si dà il carattere della leggerezza e l’impronta, dov’è possibile, della liquidità – la crema si fa molto sciolta, senza amido né farina e si usa servirla nelle tazze da caffè. Fatta in questo modo riesce, è vero, più delicata, ma non si presta per una zuppa inglese nello stampo e non fa bellezza. Eccovi le dosi della crema pasticcera, così chiamata dai cuochi per distinguerla da quella fatta senza farina. […] Lavorate prima lo zucchero coi rossi d’uovo, aggiungete la farina e per ultimo il latte a poco per volta. Potete metterla a fuoco ardente girando il mestolo di continuo; ma quando la vedrete fumare coprite la brace con una palettata di cenere o ritirate la cazzaruola sull’angolo del fornello se non volete che si formino bozzoli. Quando s’è già ristretta continuate a tenerla sul fuoco otto o dieci minuti e poi lasciatela diacciare. Prendete una forma scannellata, ungetela bene con burro freddo e cominciate a riempirla nel seguente modo: se avete una buona conserva di frutta, come sarebbe di albicocche, di pesche od anche di cotogne, gettate questa, per la prima, in fondo alla forma e poi uno strato di crema ed uno di savoiardi intinti in un rosolio bianco. Se, per esempio, le scannellature della forma fossero diciotto, intingete nove savoiardi nell’alkermes e nove nel rosolio bianco e coi medesimi riempite i vuoti, alternandoli. Versate dell’altra crema e sovrapponete alla medesima degli altri savoiardi intinti nel rosolio e ripetete l’operazione fino a riempirne lo stampo. I savoiardi badate di non inzupparli troppo nel rosolio perché lo rigetterebbero; se il liquore fosse troppo dolce, correggetelo col rhum o col cognac. Se il tempo avesse indurita la conserva di frutta (della quale in questo dolce si può fare anche a meno), rammorbiditela al fuoco con qualche cucchiaiata di acqua, ma nello stampo versatela diaccia. Questa dose può bastare per sette od otto persone. Nell’estate potete tenerla nel ghiaccio e per isformarla immergete per un momento lo stampo nell’acqua calda onde il burro si sciolga. Saranno sufficienti grammi 120-130 di savoiardi”.
Sull’origine del nome si discute molto. Si pensa che possa essere derivato dalla somiglianza con un dolcetto – il trifle – importato dall’Inghilterra a inizio ‘700, quando la figlia di Alfonso IV d’Este, signore di Ferrara, andò in sposa al re inglese Giacomo II; c’è anche chi pensa che il nome derivi più semplicemente dal fatto che vi si utilizzava il rum, gradito alla marina inglese. La paternità rimane comunque contesa fra l’Emilia (Modena e Ferrara, soprattutto), con qualche pretesa della Toscana (si parla della governante di una famiglia inglese trasferita a Firenze che avrebbe diffuso la ricetta).
In Pinocchio il dolce è presente, anche se in modo non del tutto esplicito: “Si vide uscire dalla scuderia una bella carrozzina color dell’aria, tutta imbottita di penne di canarino e foderata nell’interno di panna montata e di crema coi savoiardi” (cap. XVI). Cos’altro può essere, l’interno della carrozza della fata, se non una zuppa inglese? Fra l’altro lo stesso Medoro, il cane cocchiere, ha anche un paio di calzoni corti di velluto cremisi, che ricordano l’alchermes.
Nel libro compare anche un rinfresco per i ragazzi, la “gran colazione in casa della Fata”, che “aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di fuori” (cap. XXIX). I panini, nel più completo scialo, venivano divisi a metà e imburrati da tutte e due le parti, per meglio insaporirli. Questa idea dei panini imburrati fu certamente suggerita all’autore dalle ricche colazioni del Gran Caffè Doney di via Tornabuoni (conosciuto anche come Caffè delle Colonne), dove sia gli aristocratici fiorentini che le contadine dirette al Mercato di San Lorenzo facevano sosta per gustare un semel imburrato e un caffelatte.
Collodi racconta poi di due premi per il comportamento di Pinocchio: una pallina di zucchero (cap. XVII) e un confetto di rosolio (cap. XXIV): erano sicuramente gratificazioni speciali, per i ragazzi del tempo, dato che lo zucchero era allora una vera prelibatezza, non essendo ancora un alimento di uso quotidiano. Mi ha piuttosto sorpreso anche il fatto che Collodi non abbia inserito alcun riferimento goloso – dolciario o gastronomico – nel Paese dei Balocchi, ma forse lo ha fatto per sottolineare che quei ragazzi discoli non avevano né tempo né voglia di distrarsi dal gioco e dal divertimento, in quel ‘pandemonio’ e ‘baccano indiavolato’, tutto basato sulla “bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere” e sullo scherno della scuola (cap. XXXI).
Ho lasciato come ultimo riferimento al cibo in Pinocchio le provviste di Geppetto nell’enorme ventre-cambusa del Pesce-cane, che aveva inghiottito un intero bastimento “carico non solo di carne conservata in cassette di stagno, ma di biscotto, ossia di pane abbrostolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero” (cap. XXXV): si tratta chiaramente di scorte di cibo di più facile conservazione nei lunghi viaggi, una durevole fonte di sostentamento durante le interminabili traversate marittime.
Il mio viaggio gastronomico nelle Avventure di Pinocchio termina qui. Torno a rivestirmi dei miei panni, ma conservo ben chiara nella mente la sequenza dei tanti quadretti di vita quotidiana della Toscana di quell’epoca sparsi per il libro, che vanno ad accrescere la valenza e l’importanza dell’opera di Collodi, al di là della sua più nota e romantica interpretazione pedagogica. Succede sempre, con i grandi libri.
* Nicola Rilli, Pinocchio in casa sua. Da Firenze a Sesto Fiorentino. Realtà e fantasia di Pinocchio, Nuova Toscana Editrice, Firenze 2008, pp. 30-31.